Riportiamo la cultura nella politica
Di Alessandro Cantoni
Ripercorrendo la storia della politica italiana, ci accorgiamo che molte cose sono cambiate dagli anni Novanta ad oggi, ossia dalla caduta della Prima Repubblica e dal trionfo elettorale di Silvio Berlusconi.
E' nato un fenomeno, inizialmente politico, ma divenuto, col tempo, sempre più culturale, che potremmo definire "berlusconismo".
Nel bene e nel male, il suo fondatore ha rappresentato un'innovazione, e sarebbe troppo lunga la lista dei meriti. Ne citerò solo due: la svolta liberale (un percorso necessario in una tradizione statalista e assistenzialista come la nostra) e un po' di sano edonismo, di ottimismo reaganiano, temprato da una concezione cristiana di fondo - e quindi non troppo materialistica -.
Tuttavia, tra le pesanti controindicazioni, è fuor di dubbio che la politica, intesa come dottrina e scienza filosofica, sia stata pesantemente declassata. L'idea che gestire la cosa pubblica equivalesse a dirigere un'azienda, oppure che il politico di professione fosse solo uno sfaticato incapace di farsi strada nel mondo del lavoro, ha portato milioni di cittadini a vedere nella politica un semplice voto di scambio. Do ut des. Io do (il mio voto, i miei soldi al partito) per avere in cambio qualcosa: stabilità, sicurezza. Insomma, risultati concreti.
Il "berlusconismo", in fondo, ha traghettato la politica (che, nel termine originario, significa "arte che attiene alla città-stato") verso il suo crepuscolo.
Tutti i partiti, a destra e a sinistra, si sono adeguati a tale concezione, finendo così per diventare dei grossi scatoloni di promesse non mantenute e di programmi più o meno vaghi e generici.
Era inevitabile, a questo punto, che la sfiducia nei loro confronti crescesse a dismisura. Cosa si può fare, oggi, per recuperare tale credibilità? I partiti, attraverso le loro organizzazioni - soprattutto locali - devono tornare ad essere dei laboratori di idee, di dibattito e di crescita. La politica deve nuovamente essere innalzata al trono che le spetta. Occorre ripristinare la sua dimensione dialettica, discorsiva, ideale. In breve, occorre riportare la cultura nei partiti. Senza di questa, ovvero senza un'ondata di spirito vivificatore, senza un corpus dottrinario, le idee restano dei meri slogan: creature morte e prive di reale consistenza. Tale rischio si corre a destra - dove concetti nobili come nazione e patria rischiano di rimanere lettera morta, spauracchi da sbandierare all'occasione - e a sinistra. Soprattutto a sinistra, si assiste a un calo di entusiasmo. Anche in questa area, infatti, il rischio di banalizzare e di stereotipare non è minore rispetto alla destra. Negli ultimi decenni, i cosiddetti "socialdemocratici" hanno deciso di ritrovare la propria identità nel sostegno ai diritti civili e all'ambientalismo.
Per quanto ciò possa sembrare discutibile alla casacca opposta, è necessario che si discuta di tali questioni in maniera approfondita e filosofica. Penso, ad esempio, agli scritti di Hannah Arendt sui diritti degli stranieri e, in particolare, degli apolidi. Al di là delle tesi esposte, che possono anche essere rigettate nella sostanza, se si vuole, è però indubbio il valore e la dignità del pensiero che traspare in essi.
Recuperare tale dimensione è
indispensabile per ridare fiducia nella politica e soprattutto per non spegnere
lo slancio passionale di molti giovani. Abbiamo sete di conoscenza e di idee:
non di listini elettorali e di discorsi vuoti che facciano da contorno a
qualche talk show o comizio di piazza.