Altro che secolo breve: il Novecento è stagione di avanguardie

17.03.2020

Umberto Boccioni, La strada entra nella casa, 1911, Sprengel Museum, Hannover 

Antonio Sant'Elia, La città nuova, 1914 

Di Alessandro Cantoni 

Altro che secolo buio, o breve! Il Novecento fu tutto meno che una salma imbalsamata. Andrebbe rievocato, semmai, come l'epoca più innovativa e fervida dopo l'apogeo dell'Umanesimo e del Rinascimento. Dimenticate la lezione di Winkelmann, con i suoi busti marmorei e il riciclo perpetuo di un repertorio scultoreo classico, o il medievalismo di Rossetti. Venite ad immergere le vostre membra nella sacra fonte del futurismo.

Il XX secolo vi avvolge con il genio artistico di Antonio Sant'Elia. Un visionario, un idealista che progettò architetture mentali, pensate per sfidare il cielo. Monoliti simboleggianti un razionalismo sentimentale, contrapposto agli antichi ideali naturalisti, primitivi e rousseauiani.

Il messaggio degli avanguardisti e dei paroliberisti fu colto negli anni di regime dagli spiriti più innovatori. Da Mario De Renzi ed Adalberto Libera, autori della facciata provvisoria a Palazzo delle Esposizioni, lungo via Nazionale, in occasione della mostra della rivoluzione fascista. Una rivoluzione che, nelle intenzioni di Alfieri, Melchiori, Efisio Oppo e di Freddi doveva rompere con il passato infecondo a partire dal segno estetico.

Il Novecento fu anche l'era dei nuovi miti, da quello degli arditi all'etica divinatoria e divinizzante del superomismo nietzschiano. Si concepirono città fantasmagoriche, mentre ovunque fiorirono ideali utopistici, nel nome di Tommaso Campanella, ma anche di Proudhon, da cui sarebbero nate, negli anni Sessanta, le prime comunità hippy.

In questo periodo, abbiamo ricordato Pininfarina, ideale erede della lezione marinettiana; apologeta di quella divina razza d'acciaio che squarcia l'orizzonte come un ebbro cavallo da corsa. Negli stessi anni, alla guida della Fiat sarebbe giunta un'altra icona dell'industria italiana, Vittorio Valletta, chiamato nella ditta da Giovanni Agnelli. Gli anni Settanta e Ottanta saranno invece segnati, tra alti e bassi, dalla guida dell'Avvocato, Gianni Agnelli. Tra varie mosse azzardate, come la cessione del 10% delle azioni alla Lafico - scelta che fece infuriare gli Stati Uniti -, riuscì a collezionare vari trofei, come la riscossione, nel 1969, di Ferrari e Lancia, fino ad allora nelle mani di Enzo e della famiglia Pesenti. L'acquisto della casa automobilistica Citroen saltò a causa dell'intransigenza del governo transalpino, mentre altre piacevoli soddisfazioni giunsero in seguito all'acquisto dell'Alfa Romeo, nel 1985. Gianni non fu solamente un grande industriale, guidato dalla saggezza e chiaroveggenza di Vittorio Ghidella, ma un vero e proprio modello di vita per milioni di italiani affascinati da quel temperamento esuberante, dannunziano e decadentista. Gianni era un esteta, uno sciupafemmine, un viveur. Molti ricordano quella sua mania di portare l'orologio sopra il polso della camicia. Diventò una moda, inseguita persino da alcuni intellettuali attenti all'estetica come Indro Montanelli, che di lui ebbe particolare stima. Agnelli fu ammirato dai rampolli dell'alta borghesia, ma anche da una generazione di baby boomers che videro in lui la personificazione del mito del successo. Del resto, Gianni saltò molto spesso la gavetta, ritrovandosi, già all'età di 26 anni, presidente della Juventus e, più tardi, della RIV, un'azienda di famiglia che produceva cuscinetti a sfera. Poi ancora nel 1963, quando venne nominato amministratore delegato della stessa Fiat insieme a Gaudenzio Bono.

Le giornate di Agnelli erano un vero spasso. In un solo giorno era in grado di passare da Torino a Roma per poi sollazzarsi a Milano e a St.Moritz per un'ora di sci. A bordo del suo jet privato o di una rara Ferrari 166 MM, unica e inconfondibile, come l'Avvocato. 

Immagini: 

Facciata palazzo delle Esposizioni, 1932, Roma 

Gianni Anelli allo stabilimento Fiat di Mirafiori, 1970


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