Conoscere significa trovare Dio

28.12.2024

Di Alessandro Cantoni


L'epoca in cui viviamo è sempre più atea per partito preso e consumista: Dio non sembra trovare spazio nella riflessione dei contemporanei, ad eccezione degli studiosi. Ciò deriva dal fatto che la nozione che la società ha comunemente di Dio, è tradizionale e probabilmente inadeguata a conformarsi alle categorie psicologiche della nostra mente.

Secondo la prospettiva tradizionale, Dio è ancora l'indefinito, l'ente supremo a cui bisogna credere per forza di cose, poiché così ci è stato rivelato.

La rivelazione, tuttavia, non può bastare a chi cerca convintamente qualcosa. L'intelletto ha bisogno di indagare e si ferma soltanto quando ha trovato qualcosa su cui fermare la propria attenzione.

Esiste, certo, un modo più intuitivo di congiungersi al divino, ma un concetto ha forza soltanto quando è sostenuto dalla ragione. Non bisogna sottovalutare il ruolo ricoperto dall'intuizione nell'idea di Dio, tuttavia essa ha valore – ribadisco – solamente quando tale idea trova conferma nel nostro pensiero.

Ebbene, un contributo fondamentale all'idea di Dio che intendo sostenere è dato dalla filosofia moderna di un pensatore scarsamente considerato, sebbene numerosi siano gli studi che lo riguardano: Baruch Spinoza.

Nel XVII secolo, il rivoluzionario filosofo olandese rimeditò sul concetto ormai in auge nel lessico scientifico dell'epoca, ovvero quello di "legge di natura".

Esistono delle leggi di natura? L'intelletto ci autorizza a crederlo, poiché siamo in grado di selezionare, ordinare, raggruppare enti della stessa natura e con le medesime proprietà. Che queste leggi di natura esistano di per sé, o se siano solamente un prodotto della nostra riflessione, non è evidente. Ciò non toglie, tuttavia, che noi possediamo la capacità, la facoltà di credere nella loro esistenza reale ed è in questo fatto stesso che si compie il vero miracolo: la conoscenza.

Conoscere ci ha permesso di vedere un certo ordine nella natura, da cui sono nate le leggi della fisica e della geometria, per esempio. Le leggi della fisica sono tali perché esse si ripetono sempre: sono, per così dire, eterne ed universali. Proprio in virtù di questa eternità e di questa universalità siamo autorizzati a credere che esistano delle "leggi" nella natura.

Il grande merito di un successore di Spinoza, Immanuel Kant, fu quello di separare i diversi ambiti della conoscenza (ognuno dominato dalle proprie leggi): quello intellettuale (o puramente scientifico), quello pratico-morale e quello estetico.

Noi conosciamo Dio, in primo luogo, attraverso le leggi della natura, e quindi grazie all'indagine scientifica. Vi è però un ambito ancor più importante di quello puramente speculativo, ed è quello pratico-morale. In questo caso, la conoscenza consiste nello studiare a fondo la natura umana in generale, al fine di ricavare dei principi morali il più possibile universali. Può definirsi morale solamente ciò che si adegua ad un'etica, a una "norma di vita" che tenga in considerazione il prossimo oltre che sé stessi. E' pertanto nel contesto sociale che noi ritroviamo la virtù, e la virtù è, per definizione, un'azione che include il "noi" nel sé.

Quello morale è ovviamente un ambito più libero rispetto a quello speculativo, poiché la virtù non è mai qualcosa di astrattamente convenzionale o di definito una volta per tutte, ma che deve essere rielaborato personalmente, dando ad essa una connotazione più soggettiva. In parole più semplici, non esiste un modo unico e schematico di essere "buoni", ma dobbiamo declinare questa bontà in modo originale e personale.

A questo punto, risulta spontaneo porsi una domanda: perché le leggi di natura e le leggi morali – tralascerò in questa discussione l'ambito estetico – dovrebbero essere anche leggi divine?

Perché dunque noi troviamo Dio in queste scoperte della ragione? E' la conoscenza stessa a suggerirci che Dio esiste, ovvero in questo potere della mente, che oserei definire miracoloso,di perfezionarsi, di cercare la perfezione, di non fermarsi all'indeterminato caos apparente di ciò che è, di ciò che esiste. Il caos, o l'assenza di significato, appartiene a chi guarda al mondo con occhio materialista, a chi non scorge nessuna "Forma" dietro le forme sensibili, per usare un lessico d'ispirazione platonica.

Il pensiero e l'intelletto ci autorizzano a credere che, invece, quelle leggi esistono, che il mondo è più di quel che ci appare. Intelletto deriva da intelligere, che significa "leggere dentro".

Dal mio ragionamento non siamo per forza indotti a credere nell'esistenza di Dio: ciò è solamente una speranza, come ha scritto di recente Vito Mancuso nel suo saggio Destinazione speranza.

Può darsi che in questa "perfezione", che per l'essere umano non è forse un dato oggettivo, ma è sempre un atto di ricerca, non sia altro che un'idea umana, troppo umana, priva di risvolti metafisici; ciononostante, possiamo avere fede che essa abbia un qualche contatto con il divino e che la nostra "retta conoscenza", come la chiamava Spinoza, sia la chiave per comprendere ed amare Dio.

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