Gli ex comunisti vogliono morire liberali

Di Alessandro Cantoni
Non so quali ragioni abbiano
effettivamente spinto il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti,
a rassegnare le dimissioni. Prendendo per buona la sua onestà, possiamo però proporre
alcune considerazioni sulla natura dell'ex Pci e sul suo mutamento nel corso
dei decenni.
La sinistra sta morendo di liberalismo, e da costola di Stalin si è imbalsamata nel doppiopetto grigio di Luigi Einaudi.
Questa crisi dura, in realtà, da molto tempo: oltre cinquant'anni. Da quando, cioè, Longo fece la scelta di spostare il gigante rosso su posizioni più centriste, poi confermate dalle svolte pannelliane di Enrico Berlinguer, a metà e fine anni Settanta.
Il voto espresso a favore del divorzio (1974) e dell'aborto (1978) ribadì, infatti, la rinuncia allo Stato politico (per richiamare Hobbes), in favore delle libertà individuali.
Prima di allora, il comunismo italiano intendeva organizzarsi entro le linee di un partito organico, collettivista. La difesa della famiglia e delle sue pratiche tradizionali erano dettate dall'esigenza di scongiurare qualunque deriva egoistica, nichilista, tra i membri della classe lavoratrice.
Il Popolo doveva rimanere, pertanto, una realtà coesa e vincolata da obiettivi comuni. Cosa sarebbe successo, infatti, se l'ideologia borghese, soggettivista, avesse preso il sopravvento?
Berlinguer elaborò, di contro, la dottrina della spoliticizzazione, ossia della rinuncia all'elemento politico, interventista, dello Stato, lasciando che fossero gli individui stessi a limitare la sua azione.
Risultato: il Pci è diventato Pd, anche se il suo acronimo dovrebbe essere trasformato in Pli, ossia in Partito Liberale italiano.
Le battaglie a favore dei diritti civili (matrimoni gay, maternità surrogata, ecc.) non sono conquiste di sinistra, bensì liberali.
Nella suddetta area politica sembra che molti abbiano scordato che la democrazia può sposarsi benissimo con l'idea di uno Stato politico. Lo dimostrano, ad esempio, gli ideologi liberal-sociali, oppure i cristiani democratici, i quali non pensano (al contrario dei liberali classici) che la società civile debba imporre le proprie visioni allo Stato.
Gli unici partiti che, nell'arco costituzionale italiano, rimasero sempre coerenti con la loro visione democratica ma, allo stesso tempo, non liberale in senso stretto, furono i cattolici ed i missini.
I primi si appellarono sempre alle leggi del diritto naturale, secondo cui lo Stato rimaneva un primus inter pares, ma pur sempre un primo. Di conseguenza, doveva ribadire la sua funzione ordinatrice persino per quanto riguarda le cosiddette libertà civili (la famiglia, il divorzio, l'aborto, i matrimoni, ecc.), le quali erano soltanto in apparenza questioni private.
Allo stesso modo, il Movimento sociale italiano predicò sempre l'organicità della società e l'idea di un forte comunitarismo. Garantire un libero e smisurato sviluppo del soggettivismo costituiva un pericolo per l'ordine interno.
Già si vedono i risultati delle nuove visioni politiche: nessuno conosce più il senso del dovere, dell'appartenenza ad una comunità. Moriremo di liberalismo anche per colpa della nuova sinistra, che ha scordato le sue radici culturali e si è abbandonata ad una visione ottimistica del mondo e della società. Questo ottimismo è all'origine della spoliticizzazione attuale, in cui non è più lo Stato legislatore a dettare la linea, bensì l'individuo.