Il dialogo tra religioni non significa neutralità

12.03.2021

Di Alessandro Cantoni

Negli ultimi anni, si è progressivamente negato un ruolo pubblico alla Chiesa, la quale agiva in accordo con il principio di autonomia dell'istituzione stessa, ma non isolatamente.

Dopo aver ridotto la fede ad una mera dimensione privata, le élite liberali chiedono un'ulteriore svolta alla religione cristiana, affinché essa possa essere accettata, tollerata.

Essa dovrebbe rinunciare al proprio contenuto politico in favore di una narrazione pacifista e mondialista. In realtà, il cristianesimo si oppone, da Agostino di Ippona ad oggi, al millenarismo, ossia a quella concezione che, nell'attesa di Cristo in terra, prevede l'edificazione di una società unica, universale, senza barriere e senza confini.

Tommaso d'Aquino corresse le storture cosmopolite del cristianesimo, riconducendo la Chiesa nell'alveo del diritto romano e dell'istituzionalizzazione. Centro della comunità civile restava, pertanto, lo Stato. Come scrive nel De Regno, "è necessario che in ogni comunità vi sia uno che la regga e governi".

In accordo alla tesi secondo cui la civitas terrena costituisce una dimensione concreta, occorreva cercare un legame tra Chiesa e istituzioni temporali, affinché gli interessi spirituali della societas cristiana non venissero violati, ma fossero difesi.

Oggi viviamo nell'epoca delle neutralizzazioni. Persino le religioni sono divorate dalla secolarizzazione, che tende ad appiattire ed eliminare le differenze.

Eppure, è giusto ricordare che le comunità religiose sono, in primo luogo, unità politiche e, in quanto tali, fondate su un rapporto dialettico "amico-nemico".

Questa distinzione, sottolineata dal giurista tedesco, Carl Schmitt, non implica la guerra frontale e neppure l'odio: l'hostis (l'antagonista pubblico) non equivale all'inimicus, ossia al nemico privato.

Per questa ragione, sarebbe sbagliato vedere nei credenti di altre confessioni dei nemici da annientare.

Tuttavia, il dialogo inter-religioso cercato da papa Francesco e, più in generale, da una certa ala progressista della chiesa post-conciliare, somiglia ad un tentativo di liquidare le differenti prospettive ideologiche in nome di un'unica religione universale: in ciò consiste, fondamentalmente, la neutralizzazione.

Ciò è, da un lato, utopistico; d'altro canto appare, invece, profondamente sbagliato.

Ogni culto istituzionale possiede un'identità precisa e conserva un elemento politico: esso nasce sempre in opposizione a qualcosa. Esiste una ragione storica, culturale, per cui una civiltà nasce e diventa cristiana, oppure aderisce alla parola di Maometto. Il diritto privato romano costituì l'humus inevitabile da cui sorse il cristianesimo.

Relativizzare una religione, ossia spersonalizzarla, privarla del suo contenuto politico, particolare, equivale a postulare un unico credo universale, fondato sull'assenza di conflitto e sulla "pace perpetua", direbbe Kant.

Si tratta di un progetto illuministico, ma destinato, tra l'altro, a fallire. In primis poiché tale visione è appannaggio di una élite (il clero); in seconda istanza perché è impossibile realizzare la società universale. La storia ce lo dimostra. Come ha scritto Schmitt nel saggio Il concetto di politico, dal XVI secolo in avanti, la civiltà europea ha proceduto in direzione della ricerca di un principio di unità: dalla teologia (troppo divisiva) si è approdati, in età contemporanea, alla tecnica, sperando che quest'ultima si trasformasse in un collante sociale condiviso.

Neutralizzare le religioni non sortirà l'effetto sperato. Al contrario, produrrà l'unico risultato di appiattirle fino all'annientamento. Essere cristiani oppure musulmani sembrerà a molti la stessa cosa.

La ricerca del dialogo è possibile e resta un obiettivo importante, ma non dobbiamo per questo rinunciare a sopprimere le distinzioni politiche "amico-nemico". 

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