Il lavoro: o è dignità o non è

08.08.2023

Di Alessandro Cantoni

Voglio partire da una provocazione forte, molto forte, ma non per fare dell'ironia o per parlare con leggerezza di argomenti dotati di una certa gravitas: al contrario, desidero prendere spunto da un esempio estremo per farci riflettere, affinché ciò che è avvenuto in passato non si ripeta mai più. In nessuna forma.

All'ingresso del campo di concentramento di Auschwitz campeggiava una scritta: "Arbeit macht frei". Tutti la conoscono. Significa: il lavoro rende liberi. Si trattò di uno scherno di cattivissimo gusto della propaganda nazista, vòlta a trasformare il lavoro in un supplizio, in una tortura massacrante per l'essere umano.

Perché dico questo? Certamente non per sostenere che il lavoro, oggi, sia al livello dei campi di concentramento: oltre ad una clamorosa imprecisione storica, si tratterebbe di un oltraggio alla memoria di chi è deceduto, vittima del perverso e diabolico sistema nazista.

Tuttavia, è innegabile che per molte persone, attualmente, il lavoro sia sinonimo di frustrazione, di degrado fisico e psicologico: ritmi velocissimi, pressione costante, stipendi totalmente inadeguati a fronteggiare dignitosamente la vita.

Torno alla provocazione iniziale: si dice che il lavoro dà dignità. Già, ma di quale dignità stiamo parlando, se esso tende a svilire sempre più chi produce? Se esso non nobilita l'uomo, se non lo fa sentire parte di qualcosa o comunque non gli consente di elevarsi al di sopra della propria condizione di precario, non ha alcun senso o ragione di sussistere.

La questione del reddito di cittadinanza – la soluzione prêt-à-porter del Movimento Cinque Stelle – va affrontata con serietà anche nel centro-destra. Per quale motivo molti cittadini sono disposti ad accettarlo piuttosto che lavorare? Evidentemente perché il lavoro non offre un rimedio concreto ai loro problemi. Il governo dovrebbe sì ridurre le tasse alle imprese per incrementare l'occupazione, ma occorrerebbe altresì stabilire, di volta in volta, delle soglie sotto le quali il salario non dovrebbe scendere: regolamentare, in sostanza, le contrattazioni di lavoro.

Siamo arrivati al punto drammatico in cui la produzione si fa sulle spalle dei dipendenti. Questi ultimi non vedono riconosciuta la loro dignità di persone. Si ricattano i lavoratori stessi con una gara al ribasso, in modo tale da costringerli ad accettare le peggiori condizioni di mercato – pena il licenziamento. Ci si trova così a dover scegliere tra umiliazioni e salari al ribasso e la disoccupazione. Non tutti possono permettersi però il lusso della disoccupazione.

Siamo tornati, paradossalmente, a un mercato del lavoro simile a quello dei primi decenni del Novecento, quando imperversavano metodi imprenditoriali quali il fordismo e il taylorismo: produzione meccanica, in serie, a basso costo e logorante. Sono questi i meravigliosi progressi che doveva riservarci il radioso futuro? Cinismo, sfruttamento e spersonalizzazione? Eppure la politica ci prometteva un mondo in cui la dignità umana sarebbe assurta a primo valore. Certo, come no: si vede!

Non accusatemi di qualunquismo o di faciloneria. Il primo passo verso il cambiamento resta, comunque, la partecipazione dei lavoratori. Mi permetto di dare un consiglio a questi ultimi, i quali hanno bisogno di cambiamenti sociali e della rappresentanza di un partito riformista serio. Il consiglio è questo: anche se siete sfiduciati, disillusi, non smettete di credere nella politica: fatela. Partecipate alle riunioni di partito, dialogate con i rappresentanti locali, presentate le vostre istanze. Dal canto loro, i partiti - dal centro – comunichino con la periferia, ovvero con le sezioni locali, per comprendere quali sono le esigenze dei dipendenti e per rappresentarne le istanze in Parlamento. Tutti devono mobilitarsi: politici e lavoratori, ma i lavoratori non stiano in sordina pensando che sia tutto inutile. Serve, a sinistra, un partito riformatore serio che non sia appannaggio dei radical chic. Anche a sinistra occorre altresì una mentalità liberale e riformista, non rivoluzionaria: non è buona cosa per la salute di una repubblica avere un grande partito rivoluzionario e oltranzista. L'economia non ha bisogno di sconvolgimenti, anche perché interventi massicci provocano spesso più danni che guadagni e creano ancora più squilibri, costringendo lo Stato a una deprecabile pianificazione economica.

Ciononostante, se il piatto della bilancia pende troppo da una parte, bisogna fare in modo di farlo risalire un po' dall'altra attraverso dei calibrati correttivi economici.

I conservatori devono confrontarsi con i riformisti e abbandonare linee troppo estremistiche, rigidamente neoliberiste, in favore di un laissez-faire incondizionato. Serve più libero mercato, meno statalismo, ma il tutto parimenti accompagnato da una vocazione sociale e riformatrice di respiro moderato e interclassista. 

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