Il nostro acciaio declassato da Bruxelles e dal clientelismo

20.08.2020

INCHIESTA 

Di Alessandro Cantoni 

Secondo un rapporto del Business International del 1991, eravamo la quarta potenza economica mondiale. Questa nostra capacità di autoaffermazione e di indipendenza ha incontrato vari ostacoli nel panorama internazionale ed europeo. Vi ho già accennato, in un mio articolo, al caso Eni. Oggi vorrei portare la vostra attenzione su un altro fronte di grande attualità: quello siderurgico. Sconcertante è il modo in cui lo Stato sta fronteggiando la crisi Ilva, in particolare la sua incapacità di far rispettare gli accordi ad Arcelor Mittal. È notizia di questi giorni, infatti, che la società non ha pagato per la seconda volta di seguito il canone d'affitto trimestrale, praticamente dimezzato. L'inerzia del governo su questo fronte è tuttavia figlia di una pessima gestione che risale agli anni della prima Repubblica e arriva ai giorni nostri.

Il declassamento del comparto siderurgico italiano ci riporta alla metà degli anni Settanta e vede come principali responsabili diversi fattori concomitanti: la politica italiana, le scelte della Commissione europea, la crisi energetica del 1973 e la competitività globale.

Va detto sin da subito che l'acciaio prodotto in Italia fino agli anni Ottanta era di eccellente qualità. Uno dei migliori d'Europa, in quanto costituito dal carbone sudafricano. Al contrario, altri paesi come Francia, Germania ed Inghilterra contavano sulle proprie riserve carbonifere nazionali, riducendo di molto il costo e la qualità dell'acciaio. Nel Belpaese si rendeva perciò fondamentale concentrare gli stabilimenti. Di fatto, furono proprio questi ultimi ad essere presi di mira dopo il 1975. Di fronte alle eccedenze, la Commissione europea chiese di ridimensionare la grande siderurgia attraverso tagli nella produzione e a livello occupazionale. Questi programmi sgraditi ai lavoratori e che si sarebbero rivelati disastrosi sul piano economico, furono appoggiati da una parte della politica italiana. Lampante è, a questo proposito, il caso di Bagnoli, a Napoli.

Acciaieria di Bagnoli Cementir-Italsider negli anni Sessanta-Settanta
Acciaieria di Bagnoli Cementir-Italsider negli anni Sessanta-Settanta
L'ex ministro Gianni De Michelis, PSI
L'ex ministro Gianni De Michelis, PSI

Lo stabilimento, gestito nel 1964 da Italsider, si estese, intorno alla metà degli anni Settanta, su una superficie di 2 milioni di metri quadri e produsse in media 2,3 tonnellate d'acciaio all'anno. Nonostante gli impianti risultassero conformi alle normative, salvo gravi carenze nell'area di laminazione, vennero avviati importanti investimenti. Una lunga serie di interventi che ammontarono, intorno alla metà degli anni Ottanta, a 1200 miliardi di lire.

Malgrado le varie adeguazioni che, nel 1984, condussero ad un pressoché totale rinnovamento del sito, nello stesso anno la Comunità economica europea impose la disattivazione di un forno di riscaldamento e respinse la richiesta di utilizzare pienamente il nuovo treno di laminazione. Sempre per volontà degli organi europei, le capacità produttive annuali di Bagnoli si contrassero a 1,2 milioni di tonnellate.

1985: nuovi ostacoli impediscono alla Nuova Italsider di avanzare. Si domanda ora la chiusura complessiva dell'impianto poiché diviene impossibile ristrutturare secondo una normativa urbanistica della città di Napoli. Qualcosa di assurdo se si pensa che nel corso degli anni erano stati impiegati diversi miliardi per impianti di abbattimento delle polveri, impianti di depurazione delle acque e di insonorizzazione. A ciò si aggiunga la disposizione di un'area verde di ampie dimensioni.

La siderurgia italiana andava piegata, ammazzata, per ovvi interessi speculativi e concorrenziali.

Non solo quella che diventerà, di lì a poco, l'Unione Europea, ci tirò il collo, ma anche la politica nazionale. Essa ha dato il colpo di avvio al fallimento, non essendo stata in grado di tutelare i nostri interessi: il deputato europeo Enzo Mattina e una parte dell'imprenditoria erano infatti favorevoli a trasformare l'area industriale in un mega parco turistico ed alberghiero, mentre nel 1981 il ministro De Michelis propose lo spegnimento dell'«area a caldo».

La chiusura sarebbe effettivamente arrivata qualche tempo dopo. Era il 20 ottobre 1989.  

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