Il socialismo è ancora possibile (e auspicabile)?
Di Alessandro Cantoni
Nella nostra società, il socialismo è ancora possibile? Si tratta, innanzitutto, di analizzare le differenze specifiche rispetto all'attuale sistema capitalistico.
Il socialismo, preso nella sua accezione meno ortodossa, si prefigura come il "mercato della necessità".
Nel corso degli ultimi decenni, esso si è orientato verso una direttiva più liberale o liberista, tramutandosi in sistema di mercato moderno, alias pre-contemporaneo.
La necessità (o economia di sussistenza) non anima più, dunque, il nuovo socialismo, bensì un ampliamento degli orizzonti produttivi nella sfera del superfluo o, se si preferisce, del benessere. Questa logica, nemica del socialismo più tradizionale, ma anche del neocapitalismo adoratore del superfluo par excellence - che fa del consumismo la sua bandiera ideologica -, appare tanto più auspicabile nei suoi fini di quanto non lo sia nei mezzi.
Infatti, si tratta pur sempre di socialismo, nonostante si mostri in una versione edulcorata e più compromessa con il pensiero liberale.
I mezzi per giungere allo scopo restano quelli tradizionali. Primo fra tutti, il meccanismo della pianificazione economica e del dirigismo statale.
Un'altra concezione propria del socialismo è la classificazione dell'uomo come animale politico, capace di discorso e di socialità. Ontologicamente, egli è superiore ai mezzi con cui si guadagna da vivere, cioè il proprio lavoro. Ne deriva che una vita impiegata a lavorare non è veramente umana.
Di necessità, se si intende porre rimedio alle iniquità del sistema capitalistico, fondato sul lavoro, occorrerà che lo Stato limiti, in primo luogo, l'orario lavorativo, e che ponga, in conclusione, un tetto, un margine alla produzione stessa (la tal ditta non può produrre oltre un certo numero di beni). Il tempo sottratto alla produzione di merci o di servizi è, in questa prospettiva, quello più autenticamente umano, in cui l'animale politico, razionale, può realizzarsi, dedicandosi agli ozi e a ricercare contatti con i suoi simili.
Da ciò concludiamo che il socialismo è fallimentare nelle sue proposte risolutive, e non nei fini che esso si pone.
Dobbiamo interrogarci circa l'auspicabilità di questi mezzi; chiederci se il gioco vale la candela, e se è veramente necessario assumersi tali rischi.
L'esperienza storica ci suggerisce di non cedere a tali deliri statalisti.
Il socialismo, anche quello moderno, non può dirsi liberale fino in fondo. Quando si adopera per dirimere la questione in direzione del riformismo e dell'antistatalismo, esso è già sconfinato nel liberalismo.
Se il socialismo vuole veramente raggiungere i suoi fini, esso non può essere compiutamente liberale (non nei rimedi).
Il liberalismo condivide con il socialismo molte delle sue finalità. Non nega l'importanza di un equilibrio sociale. Combatte, avversa il consumismo, ed è nemico di ogni fanatismo neocapitalistico.
La generazione liberale classica non si identifica, né mai si identificherà, con la Scuola di Chicago, promotrice di uno sconfinato laissez-faire e ideologicamente contraria ad ogni intervento correttivo dello Stato nell'ambito dell'economia.
Tuttavia, c'è una differenza sostanziale nel modo in cui i liberali provano ad appianare le storture dell'attuale sistema economico mondiale. In una prospettiva più conservatrice rispetto a quella socialista, il liberalismo non si ritiene pronto ad un riformismo radicale, non lineare, non progressivo.
I liberali valutano i rischi - e non solo le potenzialità - di queste politiche dirigenziali, le quali potrebbero rivelarsi infruttuose e persino nefaste, poiché la realtà dei fatti procede ben oltre le intenzioni.
Essi agiscono sul materiale già dato (in questo caso il capitalismo), applicando dei piccoli miglioramenti in grado di restituire maggiore libertà ed uguaglianza ai lavoratori.