
Il valore delle istituzioni e dell’eloquio nel pensiero politico di Cicerone
Di Lorenzo Cianti
Cicerone ha rappresentato senza dubbio il più insigne interprete delle istituzioni romane nel I secolo a.C. Un autore che non si è dedicato esclusivamente alla carriera forense e ad una nutrita produzione letteraria, ma che ha saputo permeare attorno alla sua figura il sapere di un'epoca, incarnando i mores ed il patrimonio legalitario alla base della res publica di Roma. Molteplici sono stati gli ambiti d'interesse dell'Arpinate; tra questi si distingue in modo inequivocabile l'ars oratoria, concepita quale nobile espressione dell'intelletto umano, archetipo virtuoso di intervento e di azione nella realtà. Malgrado ciò, una giusta disamina della persona di Cicerone non può trascurare la sua teoresi politica, brillante come il pensiero greco a lui contemporaneo. Lo studium ciceroniano, ricco di spunti riflessivi e dal profondo valore etico, non ha interessato solo il mondo del potere, ma ha indagato a fondo la genesi dei vulnera insiti nei meccanismi decisionali.
PROFILO STORICO DELLA TARDA OPUS CICERONIANA
La parte conclusiva della vita di Cicerone fu segnata dall'abbandono della vita politica e dall'impegno persistente verso la speculazione filosofica, come attestato da alcune epistole scritte all'amico Attico. Il contesto storico di riferimento indusse l'oratore a ponderare sui cambiamenti sociali in atto, trasformazioni che di lì a poco avrebbero marcato un discrimen irreversibile con i secoli passati. Nulla sarebbe stato come prima: le tentazioni demagogiche e le derive autoritarie sorte nel frangente in cui egli visse furono una testimonianza del tramonto della forma repubblicana. Basti pensare alla crisi del triumvirato, alle guerre civili instaurate dopo il Cesaricidio, ai dissidi tra Lucio Antonio e Ottaviano, futuro Augusto, per la spartizione delle province. Si trattò di anni convulsi, che indirizzarono la sensibilità dell'Arpinate all'elaborazione del sistema valoriale trasposto felicemente nel De officiis.
GENESI COMPOSITIVA E CARATTERISTICHE DEL DE OFFICIIS
Composto nel 44 a.C., l'anno precedente all'assassinio di Cicerone a Formia per mano del tribuno Popillio, il De officiis è un trattato filosofico in tre libri unico nel suo genere, e proprio per questo motivo richiede un'approfondita contestualizzazione dei suoi peculiarismi. Ad esempio, è importante notare come l'apparato dell'opera ciceroniana diverga dal modus scribendi della sua produzione matura; anziché essere enucleate con ampie discettazioni di carattere argomentativo, talora le tesi proposte da Cicerone si susseguono per giustapposizione e con punte piuttosto audaci di assertività. Ipotesi accreditata dagli accademici è che l'Arpinate abbia concepito il De officiis in un lasso temporale relativamente breve, e che ciò fosse dovuto all'immediata diffusione del trattato nelle principali scuole del tempo. L'autore ha dunque plasmato un'architettura sobria e dai tratti essenziali, quasi stilizzati rispetto alla magnificenza di ispirazione platonica del De re publica - un espediente che, tuttavia, non preclude la qualità del pensiero filosofico.
L'originalità di Cicerone consiste nella capacità di sintesi e nella sapiente rielaborazione dei modelli pregressi. In particolare, il De officiis affonda le proprie radici in due fonti: la monografia sallustiana del Bellum Iugurthinum ed il Περὶ τοῦ καθήκοντος (Perì tou kathékontos, Sui doveri) di Panezio, autore greco del II secolo a.C. Cicerone ha tradotto per primo il termine καθήκον (kathékon, dovere, adempimento morale) nel corrispettivo latino di officium, soffermandosi sullo spessore semantico della parola.
L'officium denota il rispetto di norme e codici secolari, dando vita al tessuto connettivo che pone in relazione costante i maiores (antenati), fautori della romanitas, ai cives, i loro discendenti. Proprio in virtù di questa interpretazione etimologica, Cicerone sceglie di aprire il De officiis rivolgendosi direttamente a suo figlio, Marco Cicerone, intimandolo di perseguire la virtù. Lo stile elocutivo nell'incipit del trattato si coniuga con la valorizzazione delle radici identitarie comuni e rimarca il topos della memoria, fondamentale nell'arco dell'intera opus di Cicerone. È indubbio che il De officiis funga da prezioso lascito (munus, "dono", come scriverà l'autore stesso) verso la definizione di quadri di memoria saldi e ben radicati per le nuove generazioni.
RATIO E ORATIO. INTERAZIONE SU PIANI PARALLELI
Il pensiero dell'oratore in ambito civile ed antropologico, spesso stigmatizzato dagli studiosi come reazionario, riflette invece una volontà modernizzatrice, propensa al conseguimento della perfetta coesione sociale. Qui emerge una novità evidente, che risiede nell'avanzato approccio metodologico e nella concezione organica della societas. Viene adottata una prospettiva di ampio respiro e dalla finalità propedeutica, che nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto concorrere alla formazione della classe dirigente romana. Il De officiis risulta funzionale a questo scopo, poiché delinea un variegato affresco della società ricorrendo a mezzi inediti: lo studio del linguaggio, unito alla descrizione delle modalità con cui esso influisce sulla storia.
All'elogio di un contegno morale integerrimo, elemento tipico della dottrina stoica, viene affiancata l'analisi del legame che il raziocinio (ratio) intrattiene con l'eloquenza (oratio). Cicerone sostiene più volte il primato dell'humanitas e della consapevolezza culturale nel panorama politico a lui coevo, ritenendolo il presupposto inalienabile del vivere civile. Secondo gli sviluppi di questa visione, la padronanza dell'eloquio assurge a conditio sine qua non mediante cui l'individuo ha modo di affinare le proprie facoltà comunicative, non avulse da legami con il mondo limitrofo, né ascrivibili ad un mero esercizio retorico - modalità suffragata d'altro canto dalla scuola sofista, profondamente invisa a Cicerone. Grazie al corretto uso della sapienza, della liberalità e della magnitudo animi anche mediante l'arte espressiva, è possibile intrattenere rapporti interpersonali duraturi tanto nella sfera pubblica quanto nella dimensione privata. Come già affermato in precedenza, l'Arpinate riesce a ravvisare nel degrado delle istituzioni l'inasprimento di quei mali che avevano reso debole il civis romano: la cupidigia, l'egoismo smodato, la sopraffazione altrui, l'oltraggio degli ideali comunitari. In questo modo, la decadenza della res publica coincide con la perdita dell'eloquio e con la barbarie del verbo, privato della finalità edificante che lo aveva contraddistinto.
Il
raziocinio e l'eloquenza si uniscono dunque in un vincolo inscindibile,
imbevuto sì di riferimenti al λόγος ellenico, ma riproposto in chiave
assai più innovativa.