Lo Stato imprenditore e il nuovo IRI
Alla luce della nuova crisi economica che il Paese ed il mondo delle imprese stanno attraversando, ci siamo chiesti se potrebbe avere senso riproporre un nuovo Istituto per la Ricostruzione Industriale sul modello dell'IRI, nato in età fascista e tramontato nel 2002 sotto la guida di Piero Gnudi. Lo Stato imprenditore può riuscire laddove falliscono i privati?
PERCHE' SI
Un nuovo IRI per l'Italia?
Di Nicolò Corradini
L' esperienza dell'Istituto per la ricostruzione
industriale, l'IRI, iniziata nel 1933 e conclusasi nel 2002 sotto la presidenza
di Piero Gnudi (che sarà poi ministro del Turismo nel governo Monti), è stata
significativa della filosofia politica ed economica che guidò l'Italia dal
secondo dopoguerra agli anni Novanta. Questa linea di pensiero dichiara
esplicitamente e con forza il primato dell'interesse pubblico e nazionale sul
rigore dei conti, che è invece prerogativa del settore privato. Ma andiamo con
ordine. L'Istituto di via Veneto nasce per volere del governo fascista il 23 gennaio 1933 con l'intento di intervenire in maniera più vigorosa di quanto si
fosse già fatto con la creazione dell'Istituto Mobiliare Italiano nel 1931. Il
nome che più rappresenta l'IRI degli anni Trenta è senz'altro Alberto Beneduce,
proveniente dal socialismo riformista di corrente nittiana e fautore del rigore
finanziario. Eh sì, perché l'Istituto nacque in un'ottica privatistica,
all'indomani del raggiungimento del pareggio di bilancio nel 1925
l'innalzamento a "quota novanta" del valore della lira nel 1926, promosso dal
ministro del Tesoro Volpi. Intervenendo per sanare la crisi seguita al crollo
di Wall Street e prima ancora alle difficoltà della riconversione postbellica,
via Veneto si accollò i debiti dei principali gruppi industriali del Paese,
garantendoli con i fondi dello Stato.
Seguirono la campagna d'Etiopia, la guerra civile spagnola,
il Patto d'Acciaio, la corsa al riarmo (in cui l'Italia restò sempre indietro e
per cui gli Stati Maggiori delle Forze Armate si dichiararono impreparati alla
vigilia del secondo conflitto mondiale) e la guerra.
Nel 1945, poi, il CLN e gli industriali italiani, riabilitati nella direzione delle loro imprese, si trovarono di fronte alla domanda di cosa fare di quella enorme e politicamente scottante holding industriale e la soluzione inevitabile fu che andava mantenuto. La Democrazia Cristiana fu il partito che più di tutti spinse per il mantenimento di quella "terza via", alternativa tanto al collettivismo sovietico quanto al liberismo di marca americana e in linea, in una certa misura, con la dottrina sociale cattolica e i principi esposti nel codice di Camaldoli, stilato nel 1944 dalle migliori menti di quella che sarebbe poi diventata la Balena Bianca. Tra gli esponenti della DC che rappresentarono l'IRI del dopoguerra il nome più illustre è Pasquale Saraceno, economista nato a Morbegno, in Valtellina, e formatosi alla Bocconi di Milano, il quale teorizzò quella che sarebbe poi divenuta la prassi economica tipica di via Veneto: gli oneri impropri. Il principio che ne sta alla base è il primato dell'interesse nazionale, in nome del quale il disavanzo pubblico non deve essere un problema, giacché l'obiettivo deve essere colmare il divario tra il Nord e il Sud del Paese, creare un moltiplicatore per l'economia reale e garantire la piena occupazione (principio non stabilito dalla Costituzione, ma nei fatti perseguito dalla potente ala social-comunista e del cattolicesimo sociale della Costituente). Dagli anni Cinquanta, dal Piano Fanfani e la Cassa del Mezzogiorno, si passò poi all'apogeo economico raggiunto negli anni Sessanta, quando la lira vinse il Nobel per la moneta più stabile con Guido Carli presidente della Bd'I e fu fondato l'Enel nel 1962, per poi raggiungere gli anni Settanta... Fu allora, nel 1971, che il presidente Nixon chiuse definitivamente la stagione del gold standard e diede avvio ad una più astratta concezione della ricchezza, basata sul volume dei traffici. I tempi stavano cambiando e, dopo il novembre 1989, anche il sol dell'avvenire socialista fece capolino, per poi tramontare definitivamente nel 1991. In Italia, il pool di Mani Pulite, guidato da Gerardo Colombo e dall'illustre italianista Antonio Di Pietro, chiuse per sempre la stagione delle sporche tangenti, della corruzione politica(?) e, quello sì, della piena occupazione e del benessere condiviso. Nel 1992 venne sottoscritto il trattato di Maastricht e dieci anni dopo l'Istituto per la ricostruzione industriale, vecchio carrozzone e calco del fascismo, fu liquidato dal suddetto Piero Gnudi per la regia di Romano Prodi; mentre le partecipazioni rimaste in Finmeccanica (oggi Leonardo), Fincantieri, Fintecna, Alitalia e RAI furono trasferite al Ministero del Tesoro.
Oggi, in tempi di COVID-19 e di isteria collettiva, di crisi
economica e sociale, si torna a parlare di un nuovo intervento pubblico
nell'economia, promosso da una Banca Centrale Europea che pare essersi scoperta
con un'anima keynesiana e un ex presidente del FMI alla guida. Staremo a
vedere, non si sa se la panacea di tutti mali sia un nuovo disavanzo pubblico,
certo sarà dura riavere i Moro e i Mattei in tempi di ministri dal congiuntivo
incerto e di ballerine del Papeete.
PERCHE' NO
Bene l'economia mista, ma il gioco non vale la candela
Di Alessandro Cantoni
Caro
Nicolò, non ti nascondo la mia perplessità circa l'opportunità di riproporre un
istituto per la ricostruzione industriale sul modello dell'Iri. In
un'intervista al quotidiano La Repubblica,
lo stesso Landini ha dichiarato che servirebbe qualcosa di molto simile ad
un'Agenzia nazionale per lo sviluppo e gli investimenti, in cui sostanzialmente
allo Stato spetterebbe il compito di accollarsi una parte della spesa per
mantenere in vita le aziende.
In che modo, tuttavia, allo stadio attuale potremmo farci carico dei costi e delle diseconomie provocate dagli investimenti?
Negli anni Settanta e Ottanta, gli affari dell'Iri non andarono a gonfie vele. Anzi. Per dare un'idea della situazione in cui si trovava l'istituto, gli investimenti del gruppo erano coperti - negli anni Settanta - solo per il 14%. Per il resto, si trattò di oneri impropri. Tradotto, deficit. La deriva finanziaria si rivelò peggiore quando, nel 1980, solo il 5% del capitale investito veniva finanziato con mezzi propri. Da ciò sarebbe conseguito il profondo rosso di tutte le società controllate.
Se nel dopoguerra e fino agli anni Sessanta si tirò avanti con dignità e successo, questo fu dovuto al semplice fatto che le obbligazioni emesse erano state sottoscritte dai risparmiatori.
Il modello Iri del 1937 si reggeva, inoltre, su un fondo di dotazione e sul ricorso al mercato azionario per le società quotate. Va altresì ricordato che il presidente e fondatore Alberto Beneduce rimase un fervido sostenitore del rigore di bilancio e teorizzò il contenimento delle assunzioni escludendo procedure di salvataggio.
Affinché l'IRI possa funzionare, servirebbe un'equa spartizione dei rischi tra il settore pubblico e privato, anche se mi sembra alquanto improbabile, data la sfiducia nutrita verso certi compartimenti economici dissestati. Come ha giustamente sostenuto Franco Amatori in Storia dell'IRI. Il miracolo economico e il ruolo dell'iri: 1949-1972, servirebbe anzitutto un coinvolgimento del capitale privato. In assenza di tale condivisione dei rischi, i programmi graverebbero principalmente sul bilancio pubblico.
C'è
poi un punto fondamentale che riguarda la salute dell'economia nazionale. L'Iri
puntò di fatto le proprie risorse sulle grandi industrie strategiche, omettendo
di agevolare i piccoli, mentre l'economia reale si regge proprio su queste PMI
di cui si scordano tutti i governi.

Alberto Beneduce, Partito Socialista Riformista Italiano, fu tra i fondatori dell'IRI.

La stagione delle privatizzazioni ebbe inizio con il passaggio della presidenza dell'IRI a Romano Prodi