L'unico futuro possibile è quello della personalità

07.08.2020
La chiave dei campi, René Magritte, 1936
La chiave dei campi, René Magritte, 1936

Di Isabella Garanzini 

Lo psicologo francese Jean-Marie Robine, formatosi in tecniche espressive e psicodramma, è ad oggi uno dei maggiori esponenti della Gestalt, una corrente basata sui concetti chiave di percezione e interrelazione tra le parti. Come in un grande disegno o in un abbozzo di linee in apparenza dettate dall'Ananke, ogni elemento è collegato con gli altri attraverso una fitta rete di scambi che non cessa mai di esistere. Volente o nolente, c'è un dialogo ininterrotto tra il Sé e il mondo, con le miriadi di relazioni, stimoli ambientali e intuizioni personali, che termina solo con la morte. Nel frattempo, durante la grande avventura, è inevitabile che le forme si muovano nel quadro e creino dei veri e propri moti di vita, quali necessari esprit de finesse. Che la propria storia somigli a un carteggio evocante gli echi wildiani ed esteti di Andrea Sperelli, beatamente assorto nell'opulenta contemplazione degli steli dorati d'un giglio adamantino che per la silhouette ricorda un tondo del Botticelli o le ombre del Correggio, oppure che ci si riconosca negli sbeffeggianti soli gialli dormienti sulle piazze d'afa gremite di pensieri invisibili di de Chirico, non fa alcuna differenza. La costante rimane una: oggi non siamo gli stessi di ieri, così come è impensabile concepirci come soggetti avulsi dal contesto. Ogni cosa è legata, nulla accade per caso in un flusso infinito senza inizio né fine. Il pantha rei consiste in questo, nel riconoscere sì che il soma avanza, muta le sue forme e incede perpetuamente senza tregua verso la vittoria di Thanatos, mentre però al contempo la battaglia di Eros ci induce e conduce a parlare, scrivere, vivere ogni attimo che genera senza tregua moti di immersione nella vita.

Robine afferma che esiste un'unione anche a livello temporale: il presente e il passato determinano certamente il futuro, ma è vero anche viceversa. Come può qualcosa che ancora deve accadere condizionare il qui ed ora, e addirittura falsificare i ricordi di ieri? Attraverso le credenze.

In psicologia, un trauma deriva da qualcosa che non è stato sufficientemente elaborato dalla psiche e che rimane nella mente alla stregua di quell'albero carbonizzato che Oriana Fallaci descrive nei suoi ricordi in prima linea dal Vietnam, paragonandolo a un mozzicone nero che poc'anzi era vita ma ormai non solo ne è stato privato ma s'è fatto un simbolo rigettante morte. Questo è il trauma, una condensa nera che evapora con veemenza nella mente, così come i vetri infranti all'interno dell'abitazione ne La chiave dei campi di Renè Magritte, datata 1936.

Se si osserva con attenzione, nella figura scompostamente disintegrata è rimasto aggrappato uno sprazzo di realtà. I vetri rotti ritraggono ancora e comunque il verde delle chiome fertili, mentre il verde delle chiome fertili vero all'esterno rappresenta la realtà, ossia la composizione che il singolo s'è fatto di essa. La casa, infine, simboleggia l'unione corpo-mente che ospiterà da adesso in poi il trauma. Qualcosa s'è rotto, una falla è subentrata, e che sia stato un fruscio di vento oppure un colpo sordo l'artefice, la composizione di prima non esiste più. Ma tornando alla domanda sul futuro, com'è che questo agisce attraverso le credenze? Semplice, basta pensare a cosa abbia rotto il vetro, che è dunque inteso come metafora dell'equilibrio del Sè. Se questo era già fragile, perché un pensiero sul futuro non potrebbe essere stato la causa della rottura? Quando si pensa di non saper gestire una situazione, nel momento in cui la percezione di controllo (locus of control) è esterna e si relega agli altri la presa di decisione, allora si crede di non essere in grado di affrontare una realtà. E in quel momento, quando ci si riconosce inadatti e inetti ad affrontare una sfida futura, breve o lontana, compare l'ansia. Lo psicologo italiano Mariano Pizzimenti, membro della FISIG (Federazione Italiana Scuole e Istituti di Gestalt), riprende la concezione di Robine sul futuro e afferma di viverla in quella che chiama ansia da palcoscenico. "Quando con il pensiero ci facciamo coinvolgere da quello che sta arrivando, in noi nasce l'eccitazione e questa necessita di una maggior respirazione, occorre più ossigeno nel sangue e nel cervello. Se questo stato viene prolungato per troppo tempo però, inevitabilmente compare l'ansia, che non è un'esplorazione positiva di ciò che avverrà ma una richiesta disperata di controllo. Il fatto è che non si potrà mai controllare del tutto ciò che accadrà, e mentre è funzionale essere curiosi e interrogarsi sul futuro, non lo è per nulla pretendere di monitorarlo. Perché è perfettamente inutile". Un trauma, continua Pizzimenti, è dato da una realtà che non vorremmo assimilare ma che comunque ci invade, e può essere benissimo una ruminazione su ciò che ancora non è. L'immediato domani o il remoto futuro, entrambi non esistono ancora ma già sono logicamente pensabili, intelligibili e, kantianamente parlando, oggetto di congetture. La soluzione è concepire la novità futura come un'unione tra tutti i punti in gioco, tra le tante figure nel quadro adagiate nei diversi angoli. Legittimando inoltre aggressività e sessualità, eccitazione e repulsione come entità connesse e mai opposte, che si distruggono sì ma si trasformano anche, masticando e rigettando tutto ciò che dalla vita e alla vita arriva. Solo concependosi come complessità, assorte nei pensieri riguardanti il domani ma non spaventati da esso, si può essere attori e non macchiette. Di cui, sfortunatamente, è fin troppo pieno il mondo, mentre nelle piazze autentiche di De Chirico passeggiano soltanto in pochi. E' in arrivo una cosmogonia rinnovata, la propria, se si saprà accettare con senno e personalità la contaminazione di stimoli, che è infinita.

© 2024 La fucina delle idee. Tutti i diritti riservati.
Creato con Webnode
Crea il tuo sito web gratis! Questo sito è stato creato con Webnode. Crea il tuo sito gratuito oggi stesso! Inizia