Per salvare la scuola bisogna tornare a Giovanni Gentile

14.09.2020

Di Alessandro Cantoni 

Il libriccino "La post-scuola. Costruzione, distruzione e dissolvimento dell'istruzione italiana", edito dalla collana fuori dal coro de Il Giornale, è uno di quei rari saggi filosofici che si gustano con passione e che danno un senso profondo alla riflessione giornalistica.

Il volumetto, che si legge in poco tempo, è un ottimo concentrato di riflessioni non banali e mai scontate sul tema e sul destino della scuola.

Avete presente quel detto popolare che dice "l'abito non fa il monaco?". Ecco, trasponendo questo messaggio sul piano dell'istruzione pubblica, si potrebbe dire che il titolo di studio non testimonia il maggiore acculturamento del possessore.

Sulla scia di Einaudi, Desiderio ci ricorda che il diploma o la laurea non dovrebbero misurare semplicemente delle prestazioni. Il loro valore "legale" andrebbe sostituito con quello "culturale".

L'autore denuncia - giustamente, dal mio punto di vista - la degenerazione del sistema scolastico italiano, sempre più statale e meno pubblico.

Lo Stato non coincide, infatti, con la res pubblica. Esso ha a che fare, nella pratica, con un'organizzazione politica, governativa e istituzionale, ed è sinonimo di apparato burocratico. Dunque, non un metafisico ed astratto Noi, bensì un concreto Lui (o Esso).

La progressiva istituzionalizzazione del sapere è all'origine di un inquadramento amministrativo dello stesso, nonché della sua riduzione a feticcio: la conoscenza come equivalente di un "pezzo di carta" da esibire come distintivo nei concorsi pubblici e professionali.

Che ne è, in tutto questo caos, della cultura esprimente un'autentica esperienza esistenziale, uno strumento di crescita personale e sociale che ha per fine la libertà?

Desiderio si spinge oltre, ed ha l'onestà di annunciarci un'altra verità. Quella che il progressismo radical-chic nasconde agli occhi dei cittadini e degli studenti. Quale sarebbe la loro reazione di fronte a questa mia provocazione: il fascismo insegnava anche a pensare?

Lo scrittore non lo enuncia in questi termini, ma mi permetto di offrire una mia interpretazione.

Nell'ambito dell'istruzione pubblica, il fascismo è stato anche e soprattutto Giovanni Gentile, filosofo, idealista hegeliano.

Ebbene quest'uomo, contro il parere e la forza opposta da molti fascisti di punta, tra cui lo stesso Mussolini, diede attuazione ai suoi progetti di riforma nella direzione dell'autonomia e della libertà dalle influenze sociali espresse dallo Stato, ovvero, in quel momento storico, dal partito.

Rafforzò, nei licei, lo studio dei classici e delle discipline umanistiche, filosofiche.

Ora, esiste al mondo qualcosa di più dialettico, di più maieutico della filosofia o della poesia?

Gentile non intendeva insegnare a pensare per stereotipi, ma con la propria testa. Questa è la naturale conseguenza di chi si accinge ad entrare nel regno di poeti e filosofi.

Al contrario - mi permetto di aggiungere - vige nella scuola post-gentiliana una mentalità di caserma, una censura totalitaria del pluralismo. Ai nostri ragazzi non è concesso leggere tra le mura scolastiche Le riflessioni sulla rivoluzione francese di Burke, o il "reazionario" Genio del cristianesimo di Chateaubriand; non si spiegano le verità sul Risorgimento, ma nemmeno quelle sul fascismo, liquidato pressappoco come l'anticamera dell'oscurantismo.

Si educa ad argomentare per stereotipi - questa sì la culla dell'ignoranza - per paura di generare nuovi mostri: i fascisti, i capitalisti, i tradizionalisti; in una parola, i non-allineati.

La scuola non dovrebbe avere il timore di svelare la complessità, poiché il mondo non si divide in categorie nitide (bianco-nero; giusto-sbagliato; buono-cattivo), bensì in una miriade di sottoinsiemi da vagliare criticamente (anche questa è cultura) per non cedere all'apologia o alla demonizzazione.

Gentile, seppure in un quadro di repressione generale del dissenso, ha cercato di riformare la scuola in tale maniera.

Certo, una seria educazione filosofica costituiva un privilegio, riservato a quei pochi che in futuro avrebbero fatto parte della nuova classe dirigenziale.

Anziché stravolgere tale modello, giusto nella sostanza ma ancora molto elitario, sarebbe stato tuttavia opportuno estenderlo alla scuola di massa sorta dopo il 1969.

Evidentemente, dopo il Sessantotto l'intenzione non è stata più quella di agevolare la libertà e il processo di democratizzazione (ambizione coltivata invece da Gentile, sebbene per una minoranza), bensì quella di nutrire polli da allevamento cresciuti nella scuola dell'antifascismo militante e del politicamente corretto.

Questo è illiberale, così come lo è sfruttare l'ignoranza dei cittadini (ignoranza dovuta al degrado dell'istruzione) per piegarli all'obbedienza e all'accettazione di misure non liberali.

Il caso Coronavirus insegna. Naturalmente le intenzioni non sono state malevole, ma il modo in cui ha reagito la popolazione ci rivela qualcosa di più sullo stato di salute della democrazia. In barba al buonsenso ed alla ragione, sono stati accettati comportamenti ed imposizioni oltre il limite. Con ciò non intendo dire che non bisogna rispettare le fondamentali norme di prevenzione. Occorre farlo, ma con buonsenso e non cieca rassegnazione.

Ai professionisti dell'antifascismo dico allora che il nuovo fascismo non è presente nelle vesti di un manganellatore in camicia nera, bensì fa leva più subdolamente sulla paura e sul basso grado di coscienza dei governati. Inconsapevolezza favorita da una pessima scuola da rimettere in piedi, anche con i suggerimenti di Salvatore Valitutti, che l'autore elenca nel libro. Buona lettura.  

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