Pirandello e l'estetica del dolore

12.07.2021

Di Alessandro Cantoni 

Ci può capitare di rimanere sorpresi se pensiamo alla visione di Pirandello nei termini di una filosofia estetica. Questo perché siamo troppo abituati ad una concezione convenzionale dell'arte e di ciò che è artistico.

Pensiamo all'arte nei termini di un'illusione, una maschera della realtà, ed è proprio tale concezione che anche Pirandello è impegnato a combattere in un corpo a corpo.

Non tanto per un vezzo polemico, quanto per l'impossibilità di organizzare, secondo il suggerimento di d'Annunzio, la propria vita come un'opera d'arte.

In realtà, c'è qualcosa di profondamente superomistico nella filosofia pirandelliana, ma non nel senso che soleva darne il Vate. Quest'ultimo amava considerarsi una sorta di transfuga della vita, un fanciullo ad occhi aperti. L'apollineo e il dionisiaco non erano quelle forze misteriose della tragedia antica, che assoggettavano la volontà alla realtà del mondo, bensì puri istinti creativi - alternativi rispetto alla scienza - di dare forma e colore al mondo.

Il superuomo di Pirandello è di altra tempra, e ricorda molto da vicino quello illustratoci da Friedrich Nietzsche.

La sua è una prospettiva estetica. Intende la realtà come un sentimento della vita, dove l'arte, però, è la vita stessa.

Il desiderio di elevarsi al di sopra di essa, di fare della propria vita un'opera d'arte è una contraddizione. Significherebbe cercare l'arte al di fuori dei confini del quadro più autentico. Tale è il desiderio di D'Annunzio, ma, anche, di Adriano Meis, il "forestiero della vita" ne Il fu Mattia Pascal.

Per Pirandello, così come per Nietzsche, l'io è impotente di fronte alla sublimità della vita. Essa è infatti qualcosa di sublime in senso romantico, ossia spaventoso e attraente al tempo stesso. E' impossibile separare la realtà dal dolore, perché ogni profonda gioia vuole profonda sofferenza.

La visione estetica pirandelliana consiste in un'adequatio rei, non una fuga dalla realtà nella fantasia o, il che è lo stesso, nella coscienza. Nel confondere la realtà con l'immaginazione si ha, per dirla con Schopenhauer, una visione del mondo come rappresentazione: "la fantasia lo abbellisce (...) Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nell'oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l'accordo, l'armonia che stabiliamo tra esso e noi, l'anima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi" (Il fu Mattia Pascal).

La coscienza come potenza auto creatrice dell'arte è destinata a fallire. Soltanto nel nostro essere-per-la-morte, direbbe Heidegger, possiamo scoprire il velo di Maia.

"Io ero vivo per la morte e morto per la vita", dice alla fine Mattia Pascal, consapevole del fallimento di edificare una nuova realtà rifugiandosi nella roccaforte della coscienza. Senza questo sentimento del dolore, questo ritrovare se stessi come volontà mortificata, viviamo nella pura fattualità di esseri gettati nel mondo tra altri enti che non hanno da offrirci se non la loro presenza oggettiva.    

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