Playboy salverà il mondo

05.03.2020

Di Alessandro Cantoni

Fate l'amore, non fate la guerra. È il grido di ogni uomo attaccato alla vita. E in fondo lo sono anche i soldati, con i loro occhi languidi da stambecchi feriti, strappati al grembo delle tenere amanti.

La donna è l'unica ragione per la quale il guerriero dismette i panni del civile ed affronta il pericolo lacerandosi il petto di ferite. Così Ettore si allontanò dalla bella Andromaca non per amor della virtù, ma della sua compagna, per la quale si accinse ad affogare in un lago di sangue.

In fondo al cuore vibra una luce calda, perché si è consapevoli di combattere una guerra che non è mai la propria.

Durante uno dei conflitti più cruenti della storia recente, la campagna bellica in Vietnam, fu una rivista erotica, popolata di figure femminili, a consolare i tanti ragazzi che trucidarono i vietcong finendo, a loro volta, ammazzati.

Negli anni della contestazione, Playboy divenne il rotocalco più letto dai soldati americani al fronte. Custodito gelosamente, assolse la funzione che nemmeno il padreterno era più in grado di esercitare su quegli spiriti ribelli e indomiti. Hugh Hefner, fondatore del magazine, si comportò da buon padre verso i suoi figlioli intemperanti. Amava teneramente quei ragazzi e pensò a loro quando impresse una nuova linea editoriale alla sua creatura, corredandola di un'inedita sezione, Playmate. Molto più eccitante dell'edizione classica, proponeva modelli di ragazze comuni, come poteva essere la compagna di classe birichina, la fidanzata con un seno sodo e tonico, ma naturale. In quelle ragazze si riconoscevano volti, voci, odori, non algide statuarie di divinità irraggiungibili.

In molti gettarono fango su Playboy che, per la verità, non andrebbe affatto confuso con un giornaletto banale da quattro lire. Hefner, che era uomo intelligente e brillante, sfidò il muro dell'ipocrisia non per indole reazionaria o conservatrice, come qualcuno, malamente, credette. Avendo giurato obbedienza al liberalismo, andò contro a quella che sembrava un'inutile quanto farisaica pudicizia, che sconfinava nel fondamentalismo. Se ne infischiò della morale comune e della religione. La bellezza fisica non era affatto da disdegnare. Andava esibita.

Playboy, inoltre, aveva un taglio narcisistico, ma unico nell'affrontare la realtà politica e sociale. Eccola la sua morale: la forza di un'immagine è più dirompente di mille parole o di inutili sermoni calati dall'alto. Dimostrò che era possibile veicolare messaggi sociali anche con sfrontatezza. La rivista fu tra le prime, infatti, ad ingaggiare una lunga battaglia contro il razzismo allora dominante e la segregazione razziale di cui era vittima la comunità afro. Nel '64 prima, e ancora nel 1965, Hugh mandò alle stampe un bel primo piano sulle forme sinuose di China Lee e di Jennifer Jackson.

La sponsorizzazione si dimostrò un ottimo metodo non solo per stimolare le fantasie dei maschietti, ma anche per sensibilizzarli al rispetto delle diversità e per creare una cultura progressista del melting-pot, perché, in fondo, questa è l'America.

Playboy non si dava soltanto, voleva anche ricevere. E di fatti accolse le lettere, le confidenze di tanti giovani al fronte, divenendo organo di denuncia contro il conflitto armato.

Playboy parlava un linguaggio famigliare ai suoi lettori, mai pedante o retorico. Prometteva loro una nuova vita, dei sogni di gloria una volta rimpatriati. Non solo conigliette, dunque, ma anche argomenti di rilievo come il femminismo, le questioni economiche, lo stile, con discussioni sulla razza e sull'uguaglianza afro-americana. Articoli spesso firmati da pezzi da novanta del giornalismo, che avrebbero poi vinto il premio Pulitzer.   

© 2024 La fucina delle idee. Tutti i diritti riservati.
Creato con Webnode
Crea il tuo sito web gratis! Questo sito è stato creato con Webnode. Crea il tuo sito gratuito oggi stesso! Inizia