
Thomas Hobbes non fu nemico della libertà

Di Alessandro Cantoni
Thomas Hobbes è forse uno dei filosofi più fraintesi e meno conosciuti della storia della filosofia moderna. Nel corso degli anni, è prevalsa una contrapposizione molto scolastica tra lui ed il teorico del liberalismo, John Locke. Indubbiamente, vi sono decisive divisioni tra i due pensatori, ma sarebbe sbagliato classificare Hobbes come un uomo retrogrado, dispotico e fautore di quell'antico regime assolutista e illiberale.
Ad aver colto nel segno fu certamente Carl Schmitt, che vide in lui il precursore del liberalismo, e, in parte, ebbero ragione anche Bobbio e Taylor.
Le ragioni dei tanti fraintendimenti a proposito di Hobbes riguardano il fatto che non si tiene conto di alcuni importanti elementi: la sua concezione di libertà e la fiducia nell'individualismo in ambito economico.
L'autore scrive, infatti, nel De cive: "poiché non tutti i movimenti e le azioni dei cittadini sono regolati dalle leggi, né, per la loro varietà, potrebbero esserlo, vi
saranno necessariamente infinite attività che non risulteranno né comandate né proibite, e che ciascuno potrà svolgere o non svolgere a suo arbitrio". Ciò significa, in sintesi, che l'uomo possiede la libertà inalienabile di autodecisione, purché nei limiti della legge. E' qui che interviene, precisamente, lo Stato: esso regola la vita e le relazioni tra i cittadini (Bobbio).
Lo Stato, però, non è semplice garante, ma attore politico. In quanto tale, è suo compito intervenire in questioni, apparentemente, di diritto privato, come la possibilità di autodeterminarsi indipendentemente da un'etica pubblica o da una morale collettiva.
In tale senso, lo Stato ha una funzione regolatrice e mantenitrice degli equilibri sociali. Se ciò induce giustamente a pensare che Hobbes non possa essere classificato come un liberale classico, parimenti bisogna evitare di considerarlo un fautore del totalitarismo giuridico. Come possiamo constatare, infatti, l'idea di Stato politico non è estranea né al liberalismo sociale né a quello conservatore né a quello cristiano.
Taylor, invece, ha giustamente insistito (sebbene in maniera forzata) su un altro punto presente in Hobbes: l'egoismo.
L'egoismo non è sempre negativo, soprattutto in ambito economico. Il filosofo crede nella libera concorrenza e nel libero mercato, ma non concorda con la dottrina liberista del laissez-faire. Per questo egli scrive esplicitamente, nel Leviatano, che lo Stato deve poter regolare il commercio, il sistema di mercato, senza per questo dichiararsi a favore del socialismo. Non è nemmeno un profeta dell'assistenzialismo, poiché crede molto più nel lavoro che nei sussidi: se un uomo possiede forze a sufficienza, deve poter espatriare a costo di procacciarsi un'attività remunerativa.
Ho voluto portare l'attenzione su questo pensatore, perché prevale l'idea che i conservatori, ossia i sostenitori della funzione politica dello Stato, rappresentino un ostacolo all'interno della democrazia.
Hobbes, che non fu sicuramente un liberale in senso classico, non si dichiarò mai un nemico della libertà. Da conservatore, vide i limiti di una liberalizzazione sfrenata, e questa è anche la ragione per cui parlò di sovranità dello Stato, ossia del Leviatano.
Questo tema torna ad interessarci ancora oggi, mentre si discute a proposito di diritti civili. Aprirsi imprudentemente a tali richieste produce la conseguenza di infrangere l'equilibrio sociale su cui si fonda il principio della libertà ponderata dalla legge: una necessità, secondo Hobbes, se non si vuole ottenere la disgregazione e il caos, bensì l'ordine pubblico, anche in senso morale (Villey).