Tu vuò fa' l'americano ma si' nato in Italy
Di Alessandro Cantoni
Tutti ricordano il brano musicale di Renato Carosone: "tu vuò fa' l'americano!". Erano gli anni del boom, dell'espansionismo statunitense e della voglia di emulare i salvatori della nostra povera patria. Gli italiani scoprirono per la prima volta i lussi del capitalismo e del consumismo: un'espressione ancora sconosciuta ai più, nell'imminente Dopoguerra.
Oggi c'è ancora voglia di trafugare quello che si trova dall'altra parte della luna. Soprattutto in politica, dove diversi partiti ed esponenti della Destra italiana, auspicano un'evoluzione ideologica rivolta al partito repubblicano degli Stati Uniti.
Questa operazione mi pare insensata sotto più punti di vista.
In primo luogo, noi già possediamo una tradizione repubblicana, che un tempo faceva capo a Spadolini, e che vede come padri ispiratori Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo. Cattaneo sognava un'Italia federale, risplendente come un sole tra gli Stati Uniti d'Europa. La Giovine Europa, ideata da Mazzini, avrebbe dovuto rinsaldare un'alleanza dei popoli contro la Santa Alleanza dei sovrani, nata invece per ripristinare gli antichi privilegi monarchici.
Il partito dell'elefante, di cui molti desiderano essere la copia, ha la sua legittimità oltreoceano, dove è nato - già alla fine del Settecento -, con il nome di Democratic-Republican Party, in opposizione al programma tendenzialmente centralista del Federalist Party guidato da Alexander Hamilton. Attualmente, i due moderni schieramenti, ossia Partito repubblicano e democratico, sono indiretti discendenti della creatura di Thomas Jefferson. Il primo in opposizione al sistema schiavistico degli Stati meridionali (legittimato, viceversa, dal governo Democratico dell'epoca).
Per tornare alla questione precedentemente sollevata, ritengo del tutto fuori luogo il patriottismo americano in ambito europeo e nazionale.
L'attuale conformismo della Destra, che consiste nell'adattarsi al modello repubblicano a stelle e strisce, è causa di un eccessivo fervore nei confronti delle politiche atlantiste in materia economica e militare. Questi paradigmi dovrebbero essere giudicati con maggiore senso critico e distacco. Naturalmente, gli Stati Uniti rimangono il nostro principale alleato, ma, come scriveva Beppe Niccolai, storico outsider del Movimento Sociale Italiano, "rivendichiamo la piena dignità della nostra presenza paritaria nell'Alleanza atlantica, come nazione indipendente a sovranità non limitata, libera quindi di scegliere quando usare la diplomazia, quando la forza, senza dover subire interferenze".
Non bisogna dimenticare, inoltre, che il patriottismo o, in questo caso, vero e proprio nazionalismo americano, accomuna tanto i Democratici quanto i Repubblicani per motivi ideologici.
Se dunque il desiderio di espansione fa capo ad una opinione pressoché unanimemente condivisa a Washington, secondo la quale gli Usa avrebbero il compito di esportare la democrazia nel mondo, non si capisce donde provenga l'infatuazione degli europei e degli italiani per questa causa, connessa esclusivamente ad un forte sentimento di appartenenza comune, diffuso nella comunità politica del Congresso.
Dem e Repubblicani condividono il medesimo stato d'animo nei confronti del mondo (e, di conseguenza, anche dell'Europa). Il fatto che alcuni presidenti repubblicani, come Donald Trump, siano apparsi più tiepidi su questo fronte, nonché promotori di un crescente isolazionismo, deriva da un discorso molto pratico di strategia politica: dirottare finanziamenti verso l'economia nazionale, anziché puntare ad un allargamento verso Est; stringere accordi diplomatici favorevoli con le potenze straniere, al fine di fortificare i vincoli economici e ridurre il rischio di un attacco.
A livello ideologico, tuttavia, il suprematismo americano è condiviso tanto da Biden quanto da Trump; da Bill Clinton al pari di George Bush.
Alla luce di quanto detto, mi sembra perciò chiaro il motivo per cui la linea politica statunitense ha valore e significato in rapporto al suo contesto storico, sociale e culturale, mentre risulta fuori luogo nella nostra realtà continentale.
Concludo solamente dicendo che non sarebbe parimenti auspicabile uniformarsi al modello conservatore statunitense, poiché differisce da quello progressista, democratico, esclusivamente sotto pochi punti di vista.
Le maggiori divisioni tra i due partiti riguardano prevalentemente i diritti civili. In economia, entrambi sono fortemente liberisti, poco attenti alla questione sociale, mentre un maggiore interesse viene ad essa rivolto - storicamente - dai conservatori italiani ed europei.
Il mito della privatizzazione perseguito negli States presenta caratteri particolarmente accentuati, laddove in Italia si cerca di declinare lo sviluppo capitalistico con la tutela di quei diritti sociali sconosciuti in America. Il modello capitalistico neoliberista non promuove la protezione del cittadino, tendendo a considerare quest'ultimo come un produttore o, banalmente, una risorsa. In caso contrario, laddove subentrino difficoltà economiche o impossibilità a lavorare, si gode di una protezione sociale minima in ambiti fondamentali della vita, come il diritto alla salute. Si pensi anche solo ai prezzi delle assicurazioni mediche.
La svolta liberale, di cui tutti
parliamo e che ancora deve in parte realizzarsi, non coincide con un copia-incolla
del sistema americano tout court.