Verità della morale e falsità del relativismo

09.09.2020

Di Alessandro Cantoni 

Che cos'è il bene o il male ce lo insegna la morale. Che non si tratti di un sentimento innato, come credevano Kant e Rousseau, mi sembra testimoniato dal fatto che se non viene coltivato, la coscienza è in grado di compiere indicibili efferatezze.

La morale è perciò qualcosa che si apprende e si tramanda nel corso dei secoli. È l'insieme delle credenze e dei valori di un popolo, di una comunità.

Pur non essendo assolutizzabile, tutti noi comprendiamo di quale immensa utilità siano provviste le ragioni del sentimento.

Se la morale non è assoluta, ciò significa che neppure le idee di bene o di male si richiamano a principi oggettivi, riconosciuti all'unanimità. La Ragione non ha ancora esercitato un simile potere. Possiamo sostenere, tuttavia, che esistono sistemi morali superiori agli altri. Nel novero di questi ultimi rientrano tutte quelle dottrine morali che predicano la mitezza, la concordia, la virtù.

Una civiltà capace di esprimere una simile cultura, iscritta nei codici e nel cuore degli uomini, possiede senza dubbio un maggior grado di raffinatezza e di sublimità.

Se anche fosse vero che il cristianesimo non possiede la moralità più sublime al mondo, essa si avvicina, nondimeno, alla perfezione.

Ciò avviene poiché essa pone al centro del suo cosmos ideologico la Persona, la Comunità, senza per questo sminuire il singolo individuo.

Sussistono invece canoni etici, specialmente in alcune aree dell'Oriente, dove al concetto di lealtà si è sostituito quello dell'inganno, come ci testimonia L'arte della guerra di Sun Tzu.

Persino l'ideale neocapitalista, in sé cinico e nichilista, si allontana fortemente dal sentiero lussureggiante del pensiero liberale e cristiano che caratterizzava la società europea del XIX secolo. Lo stesso liberismo, dottrina economica del capitalismo, era intriso di eticità cristiana, tale da dover prevenire una degenerazione dello stesso in individualismo sfrenato.

La scomparsa progressiva del cristianesimo dal cuore e dalle istituzioni dell'umanità ha coinciso con l'inaridimento spirituale dell'europeo, nonché con il freddo distacco degli individui nella comunità.

Tra queste glaciali solitudini si agita in ogni momento 

il desiderio di sopraffare l'altro, anche in termini economici, attraverso una sleale competitività.

Spesso si sente dire che il bene e il male sono termini interscambiabili. Diffidate di chi emette simili sentenze. Il più delle volte se ne servono per coprire le loro scempiaggini. Questo modo di pensare è subdolo, insidioso e pericoloso. Cosa succederebbe, infatti, se un'intera nazione abbandonasse le proprie arcane credenze in nome del relativismo o dell'anarchia? Ciò sancirebbe la fine di un accordo.

La cieca fiducia nella Ragione ha già commesso anche troppi danni. Ergendosi a padrona del mondo, ha preteso di giudicare la morale con gli stessi strumenti che essa stessa ha elaborato, ovvero con le formule assiomatiche, condannando tutto ciò che non avesse un fondamento scientifico.

Per simili uomini, la morale non è che un fronzolo inutile, una superstizione dannosa, un gigantesco Behemoth pronto a sollevare gli scudi di fronte all'avanzata del positivismo.

I peggiori relativisti non sono nemmeno gli uomini di scienza - i quali possono sviluppare una propensione a confrontarsi con l'infinita beltà e armonia dell'universo, spingendosi alla ricerca di un principio primo, come Newton, Leibnitz o Spinoza -, bensì i filosofi.

Quando cercano una giustificazione alla loro miscredenza, si appellano volentieri all'autorità di Socrate o di Platone. Parlano del primo come di un padre del relativismo, mentre fu maestro di pensiero.

Insegnando a dubitare sul concetto stesso di giustizia o di bene, non rinnegava la morale. Nel Critone, Platone ci racconta infatti che egli accettò di morire di morte ingiusta, in virtù del nomos della sua città. Mai si sarebbe sdegnato di servire la patria, o di offrire sacrifici agli dèi della sua polis. Soltanto, aveva a cuore che i suoi cittadini sapessero ciò di cui amavano riempirsi la bocca. Bene, male, giustizia e ingiustizia non dovevano restare concetti vuoti o retorici, come lo erano per i sofisti. Capire la morale significa incorporare la sua legge, coglierne il valore ed il significato intrinseco.

Un altro idolo indiscusso dei relativisti è Friedrich Nietzsche. In realtà, molti di loro ignorano di non conoscerlo affatto. In modo piuttosto scolastico, viene presentato come il fondatore del nichilismo europeo. In un certo senso è vero, ma occorre analizzare in profondità il suo pensiero e le ragioni che lo mossero in tale direzione.

Nietzsche è sempre stato un anarchico. L'anarchismo può essere accolto a destra quanto a sinistra, sebbene con sfumature molto differenti. A destra, l'anarchismo è considerato una specie di fronda; delinea più un'attitudine interiore che un desiderio concreto di rivoluzionare radicalmente le istituzioni temporali.

Sarebbe sbagliato indicare in Nietzsche un'icona del pensiero relativista. Egli voleva rifondare la morale, perché riteneva (a torto, a mio avviso) che quella cristiana fosse all'origine della schiavitù umana in senso metaforico. Rifondare, non distruggere. Dalle macerie sarebbe dovuta sorgere, per così dire, una nuova Roma, più perfetta e virtuosa che mai, non qualunquista: "Sia la tua virtù troppo elevata per la volgarità dei nomi e se devi parlare di lei non ti vergognare che il tuo labbro balbetti (...) Una virtù eterna è quella ch'io amo (...) L'uomo è cosa che dev'essere superata: perciò tu devi amare le tue virtù: - perché tu perirai in causa di esse".

Non credeva nella morale comune perché era un ottimista. Riteneva infatti l'uomo capace di elevarsi da solo verso il bene, senza bisogno di una legge morale imposta. In un certo senso, sarebbe bastato scoprirla dentro di sé.    

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